Condominio: occupazione spazi comuni come il cortile. Come fare?

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Nel caso di occupazione illecita di un bene condominiale, come può accadere nel caso di un cortile, il danneggiato può ben agire per il risarcimento del danno, ma dovrà provare il pregiudizio economico subito in seguito alla condotta dell’occupante. Dunque, è il proprietario del bene condominiale che dovrà provare il mancato guadagno dipeso dalla perdita della materiale disponibilità del bene e del suo sfruttamento.

A chiarirlo è la recente pronuncia della Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 23 novembre 2018, n. 30472.

Il caso

Il caso trae origine da un proprietario di un appartamento, che conveniva in giudizio il titolare di un negozio posto al piano terra del medesimo stabile, al fine di accertare il proprio diritto pro quota su un’area esterna che il convenuto eccepiva essere di sua esclusiva proprietà, in quanto pertinenza del suo immobile.

L’attore domandava non solamente la condanna alla rimozione degli impedimenti al godimento del diritto, quanto anche il risarcimento del danno.

In primo grado, la domanda dell’attore veniva rigettata, mentre in secondo grado si affermava la natura condominiale della corte e l’appellato veniva condannato alla rimozione dei paletti e delle catene collocati sul cortile e al rilascio dell’area. Veniva però rigettata la richiesta di risarcimento del danno, con la conseguenza che, così, si è giunti in Cassazione.

Danno da occupazione illecita

Per comprendere quali siano state le conclusioni della Corte giova sicuramente rammentare come l’occupazione illecita avvenga se un bene viene posseduto o detenuto senza alcun titolo giustificativo, sia perché questo manchi del tutto, sia perché invalido. Ne deriva che questa condizione di occupazione illegittima può derivare sia da un inadempimento contrattuale sia da un illecito civile, come il caso in cui il terzo occupi il cortile senza ragione.

Chiarito ciò, l’opinione prevalente dei giudici è che in caso di occupazione illegittima di immobile, il danno a carico del proprietario sia in re ipsa, ovvero sia rappresentato nel fatto stesso dello spossessamento da parte dell’occupante abusivo. Di qui, la considerazione secondo cui l'esistenza di un danno risarcibile può sussistere sulla sola base di una presunzione relativa superabile solo con la dimostrazione concreta che il proprietario, anche se non fosse stato spogliato, si sarebbe comunque disinteressato del suo immobile e non l'avrebbe in alcun modo utilizzato. Per quanto attiene la quantificazione del danno, il giudice procederà alla stima con presunzioni semplici, come ad esempio in relazione al valore locativo del bene usurpato

La posizione di cui sopra, pur maggioritaria, non è accolta da tutte le pronunce. C’è infatti chi ritiene che il danno non sia presunto né coincidente con l’evento ma, al contrario, sia un “danno conseguenza”.

Sulla base di tale visione, il danneggiato che avanza domanda di risarcimento dovrà provare l’effettiva lesione del proprio patrimonio. Insomma, l’occupazione NON è il danno, ma può essere una condotta produttiva dello stesso.

In altre parole ancora, il danno dovrà essere oggetto di una specifica dimostrazione con riferimento agli effettivi e concreti impieghi che il legittimo titolare del bene avrebbe fatto dell’immobile. In tal senso, il “danno conseguenza” deve essere qualificato come lucro cessante, ovvero con una condizione di mancato guadagno dipeso, magari, dalla circostanza di non aver potuto concedere il bene in locazione o di non poterlo utilizzare direttamente, o ancora di non poterlo vendere, e così via.

In sintesi, ogni conseguenza pregiudizievole che deriva dall’abusiva occupazione dell’immobile deve essere provata, ovvero bisogna dimostrare di “aver subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi anche della prova presuntiva” (così la Cass. 15111/2013).

Dunque, il giudice non potrà che valutare la sussistenza del danno sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti. E, sulla base di tale orientamento, non si può affermare il danno in re ipsa, poiché un simile approccio significherebbe ammettere la sussistenza di una presunzione per cui, verificatosi l'inadempimento, scatterebbe comunque la bontà della domanda risarcitoria con conseguente inversione dell’onere della prova (spetterebbe insomma all’occupante dimostrare l’inesistenza del danno).

Si tenga infine conto come la dottrina rammenti come con la recente Cass. n. 13071/2018 un giudice abbia considerato che il danno come in re ipsa crea una presunzione che non solo esonera il danneggiato dall'onere probatorio, ma impone al preteso danneggiante di fornire una prova negativa. Secondo l’orientamento in commento, dunque, il danno in re ipsa può costituire un illegittimo esonero dall'onere della prova.

Ciò che rileva ai fini risarcitori è comunque il danno conseguenza, che deve essere allegato e provato. bisognere; pertanto, è da disattendere la tesi che colloca il danno in re ipsa, perché così “snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo” (Cass. S.U. 26972/2008).

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